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Foto: Mario Sofia © 2017


ASSEMBLEA UNIONE INDUSTRIALE TORINO

 RELAZIONE PRESIDENTE DARIO GALLINA

TORINO 26 GIUGNO 2017

Autorità, Signore e Signori, colleghi imprenditori, a Voi tutti il saluto ed il benvenuto dell’Unione Industriale di Torino.
Un ringraziamento a quanti hanno scelto di partecipare a questa assemblea ed un grazie particolare a coloro che interverranno per approfondire il tema della produttività,
Come avete avuto modo di vedere entrando all’unione oggi, malgrado questo sia un centro congressi e non una fabbrica, abbiamo voluto che il lavoro, i processi produttivi e le nostre imprese siano sempre protagoniste delle nostre riunioni riproducendone immagini e suoni.
Anche oggi mettiamo al centro la crescita e per questo abbiamo scelto il tema della produttività, che ci riguarda tutti, e riguarda il nostro sistema paese. Camminando tutti oggi insieme su questa strada virtuale vogliamo fare un percorso che possa dare degli spunti interessanti e utili e guardare al futuro con ottimismo e fiducia.

Ma prima permettetemi di dare uno sguardo più ampio al contesto generale e internazionale.
Meno di un anno ci separa dalla precedente Assemblea della nostra Unione.
L’incertezza che avevo indicato nella Relazione dello scorso anno ha portato, da una parte verso cambiamenti che si sono realizzati, e dall’altra lascia aperti scenari complessi che rendono difficile immaginare l’evoluzione dei prossimi anni. L’avvenuta elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha acutizzato l’instabilità politica globale.
In Europa, ci sono segnali confortanti di stabilizzazione, come quelli che sono venuti dalle elezioni francesi.
Essi, fanno pensare che possa riprendere su basi più solide il cammino dell’integrazione continentale: una necessità assoluta, in un’arena globale squassata dai contrasti.
E tuttavia, l’Unione Europea deve fronteggiare notevoli incognite: dalla gestione della Brexit, fino alle minacce della Russia di Putin.
In questa accelerazione del cambiamento degli ultimi mesi penso che per l’Italia, si apra un ruolo potenzialmente di maggior rilievo a livello comunitario, a patto che sappia giocare le partite giuste sui tavoli giusti.
Per fortuna, se il quadro geopolitico appare fortemente perturbato, il quadro economico è più confortante adesso di quanto non fosse l’anno passato.

Il commercio mondiale sta crescendo al ritmo del 3,8% su base annua.
Il PIL degli Stati Uniti è previsto in aumento al 2,2%. Quello della Cina al 6,6%.
L’India crescerà oltre la soglia del 7%.
Il Giappone pare uscito dalla sua stagnazione cronica, con un PIL che viaggia all’1,3%.
Anche l’Eurozona sembra essersi riscossa, con una crescita che punta all’1,7%,
Queste cifre indicano con sicurezza che il movimento della globalizzazione non si è fermato.
Le minacce o le promesse di una nuova stagione all’insegna del protezionismo sono difficili da realizzare in un mondo in cui la rete delle interdipendenze è ormai troppo solida per essere intaccata.
È impossibile tuttavia non scorgere il segno prepotente dell’innovazione tecnologica, che sta mutando sia la geografia della divisione internazionale del lavoro, sia i confini fra i settori economici, le attività e le occupazioni.
Come ha messo in rilievo il futurologo americano Martin Ford (nel suo Rise of the Robots), analizzando l’ascesa del digitale e della robotica, la caratteristica della quarta rivoluzione industriale, in cui siamo coinvolti, è la sua trasversalità.
Questa quarta rivoluzione industriale metterà in discussione modelli di manifattura rimasti invariati per decenni.
Fino ad oggi ci hanno raccontato che la manifattura non si poteva fare qui da noi ma occorreva farla in paesi lontani approfittando del basso costo del lavoro.
Ai nostri giovani dicevano che le fabbriche non erano posti in cui cercare lavoro e le merci percorrono ora migliaia di chilometri dai centri di produzione ai consumatori.
Il modello di fabbrica, sostanzialmente invariato, è stato, fino ad oggi, solamente spostato in altri paesi.
Tutto questo cambierà e in alcuni casi potremo riportare di nuovo le produzioni vicino ai consumatori e l’aumento della produttività potrà generare, se governato, crescita e sviluppo cosi come sempre è avvenuto nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche.
È una straordinaria opportunità in cui dobbiamo riporre le nostre aspettative di progresso e di miglioramento.
Ma il cambiamento tecnologico fa aumentare anche il senso di spaesamento e di diffuse preoccupazioni sociali.
Ne ha parlato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nella sua Relazione di un mese fa.
Ci ha ricordato che l’economia italiana, a forte connotazione manifatturiera, “è vulnerabile ai processi di automazione: secondo recenti stime dell’OCSE, il rischio è molto alto per un decimo dell’occupazione e può interessarne con probabilità elevata fino alla metà”.

A questa vulnerabilità, come afferma ancora la Banca d’Italia, si affiancano, per il nostro Paese, “le conseguenze della doppia recessione di questi anni ritenute ancora più gravi di quelle della crisi degli anni Trenta”.
La produzione industriale è scesa di quasi un quarto.
Gli investimenti del 30%.
Ancora oggi il PIL è inferiore di oltre 7 punti rispetto all’inizio del 2008, prima che la crisi esplodesse.
Nel resto dell’Eurozona esso invece supera del 5% il livello ante-crisi.
Tale è l’entità del divario che dobbiamo recuperare.
Quando l’ISTAT, il mese scorso, ha comunicato che la crescita del PIL relativa al primo trimestre 2017 risultava pari allo 0,8%, sono state numerose le dichiarazioni di apprezzamento e di soddisfazione.
Ogni progresso significativo va salutato come segnale di cambiamento positivo, che può e deve diventare un’inversione di marcia.
Nello stesso tempo, però, non possiamo dimenticarci che il valore medio europeo per il primo trimestre è stato pari all’1,7%.
L’Eurozona continua quindi a marciare con un passo molto più rapido di quello dell’Italia.
Quest’anno cresceremo probabilmente oltre la soglia dell’1%, ma la media continentale resta nettamente superiore.
Andando avanti così, il divario tra noi e l’Europa non solo non si annullerà ma è destinato ad ampliarsi.
Per raggiungere i valori medi dell’Eurozona, dobbiamo correre più in fretta.
Quali sono le cause per cui il nostro Paese da vent’anni cresce meno degli altri?
La diagnosi, ripetuta tante volte, ha messo a fuoco una serie di questioni, sia di carattere strutturale che di natura istituzionale e politica.
Vorrei sottoporre alla vostra attenzione un aspetto di cui non si parla abbastanza, cioè l’aspetto demografico.
E’ evidente che l’Italia è una nazione anziana.
La popolazione ha un’età media di 45 anni.
Il numero dei decessi supera da qualche anno costantemente quello delle nascite. Molti giovani, specie i più brillanti, vanno a cercare miglior sorte all’estero.
Abbiamo perso tra il 2008 e il 2016 più di 500mila persone, in prevalenza giovani che si sono trasferiti all’estero, prevalentemente in Germania, Inghilterra e Francia.
Il tasso di formazione scolastica è ancora insufficiente, soprattutto se rapportato a un cambiamento tecnologico che metterà in crisi i ruoli standardizzati e le funzioni meramente esecutive.
Non dimentichiamo poi che la manifattura ha perso appeal, specie nei confronti dei giovani: si tratta di un fenomeno sociale e culturale.
Pochi sanno che siamo il 2° paese europeo per manifattura mentre i ragazzi privilegiano la scelta liceale in misura doppia rispetto alla Germania.
Occorre poi fare i conti con la mancanza di un’istruzione terziaria professionalizzante, ad eccezione del segmento ITS, troppo ridotto (9.000 studenti) per essere confrontato con gli oltre 800.000 studenti tedeschi.
E poi, naturalmente, ci sono i costi strutturali del sistema-Paese, su cui abbiamo ragionato in tante occasioni e su cui non mi voglio dilungare ma non possiamo ignorare su quanto questi incidano sul produttività del sistema Italia: Mi riferisco · Alto debito pubblico · Spesa pubblica in costante aumento · Burocrazia pervasiva · Giustizia molto lenta · Il sistema delle relazioni industriali che mantiene ancora un grado troppo alto di centralizzazione.

Infine, ma non è certo l’ultima questione, sopportiamo la crisi profonda di un sistema politico che non riesce a riformarsi.
L’esperienza del referendum ha mostrato ancora una volta l’immaturità del nostro paese verso il cambiamento.
Ecco perché abbiamo voluto con l’Assemblea odierna proporre un’altra prospettiva.
Per recuperare il differenziale negativo che penalizza la crescita italiana, occorre un balzo della nostra produttività. Lo vedremo meglio più tardi nella relazione del Dott. Crapelli Presidente di Roland Berger, la produttività dell’Italia ristagna da circa vent’anni, come sappiamo bene.
Oltre alle cause del sistema pubblico c’è un’altra parte che deve e può essere recuperata attraverso l’azione diretta degli imprenditori e delle imprese.
In altri termini, vediamo di capire, noi per primi, contando sulle nostre forze, che cosa possiamo fare per incrementare la produttività e imprimere così uno slancio maggiore all’economia.
Per aumentare la produttività bisogna prima di tutto investire.
Abbiamo la necessità di ricongiungerci pienamente al grappolo delle nazioni più sviluppate cui apparteniamo.
Perché questo avvenga, dobbiamo accettare fino in fondo la sfida dell’automazione.
Un’automazione diversa dal passato, basata sull’interconnessione, sull’uso dei dati e dell’intelligenza artificiale.
Alcune delle parole chiave di questa rivoluzione tecnologica le avete trovate ad accogliervi qui, sulla strada che conduce in sala,
Gli investimenti necessari non sono però solo quelli tecnici ma devono essere anche sull’organizzazione, sui metodi e sulle persone con la formazione adeguata al nuovo paradigma tecnologico.
Oggi ci sono dati che confortano circa l’atteggiamento delle nostre imprese nei confronti degli investimenti: circa il 30 % investe in nuove tecnologie.
Il Piano Calenda ha avuto il merito di riaccendere l’interesse per le condizioni che consentono di rafforzare l’attitudine a investire.
Secondo l’Ucimu (associazione nazionale produttori di macchina utensili) gli ordini sul mercato interno sono cresciuti del 22% nel primo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016 grazie all’impulso degli incentivi di Industria 4.0.
In questo senso, le misure del governo hanno rappresentato uno stimolo decisivo. Ma l’orientamento agli investimenti non può essere un fattore congiunturale; c’è al contrario la necessità che le misure assunte dal Piano del Governo Industria 4.0 divengano delle misure strutturali di politica industriale.
Come si legge in un importante Rapporto del McKinsey Global Institute pubblicato all’inizio di quest’anno, l’automazione può imprimere quella spinta alla produttività richiesta per conseguire obiettivi di sviluppo che altrimenti sarebbero a rischio.
Rinunciare a guidare e a incentivare l’automazione significa subire passivamente le sue conseguenze che sappiamo ci saranno.
Jack Ma, fondatore di Alibaba, sostiene che saremo di fronte “a tempi dolorosi se non si agirà adeguatamente per mettere i cittadini del futuro in grado di fare i mestieri del futuro”.
Si calcola che in Europa saranno interessati 54 milioni di lavoratori; i 2/3 delle mansioni sono automatizzabili per il 30%.
Questo scenario, che è insieme imponente e incombente, deve sollecitarci ad accelerare la nostra capacità di reazione.
Chi si muoverà per primo avrà la possibilità di sviluppare forme di adattamento al cambiamento tecnologico.

Su questi temi abbiamo realizzato recentemente un sondaggio, fra le nostre aziende sulla propensione all’investimento nelle tecnologie digitali; è emerso che il 25 % delle imprese è già attivo e sono quelle più grandi, più strutturate e preparate al cambiamento tecnologico.
Però noi dobbiamo fare in modo che tutto il sistema cresca, soprattutto l’ampia base delle PMI.
Dobbiamo raggiungere e stimolare anche queste aziende, che sono importantissime perché costituiscono il sistema di fornitura per le nostre filiere.
E’ una sfida irrinunciabile sulla quale stiamo lavorando intensamente.
All’interno del nostro programma OFFICINA 4.0, che abbiamo lanciato con la nuova presidenza, è stato costituito ed è già operativo da alcuni mesi, il Digital Innovation Hub del Piemonte, primo in Italia, che è l’interfaccia fra le imprese e tutti i soggetti che compongono l’ecosistema dell’innovazione.
Il lavoro che l’HUB svolge è prima di tutto quello di sensibilizzare le imprese, accompagnarle nel percorso digitale e fornire le connessioni con i competence center facilitando l’accesso all’offerta delle tecnologie disponibili anche con adeguati interventi di formazione.
Un lavoro che – vi assicuro – non è affatto semplice.
Oggi qui trovate un desk dove potete informarvi delle attività dell’HUB che rientra fra i servizi gratuiti offerti alle imprese associate.
Come avete avuto modo di notare insisto molto su questi aspetti perchè c’è una forte sensazione di estraneità, un po’ di ritrosia, forse un eccesso di prudenza.
Non dico che sia facile; tutt’altro.
Dico che dobbiamo farlo.
E dobbiamo farlo in fretta.

Parlando della nostra città, Torino deve vivere la transizione tecnologica come un’opportunità, non come una minaccia.
Nell’incontro che abbiamo realizzato l’8 giugno con il FORUM SU TORINO insieme alla Sindaca Chiara Appendino abbiamo voluto, ancora una volta, sottolineare che le nostre imprese e la tradizione industriale di Torino ci impongono di affrontare la trasformazione in atto affinché generi sviluppo e crescita.
E lo dobbiamo fare insieme agli enti territoriali, in primo luogo, i nostri interlocutori naturali.
Con loro vogliamo collaborare su progetti precisi, concreti, attuabili in tempi ragionevoli.
Per essere pratici abbiamo individuato, con il comune di Torino, tre macro aree che riguardano: l’attrazione degli investimenti, le infrastrutture con la mobilità e la burocrazia.
Su questi punti, abbiamo raggiunto un’intesa che verrà ratificata nei prossimi giorni introducendo un metodo per la verifica concreta, pragmatica e puntuale.
Ogni tre mesi ci sarà un momento di valutazione dei risultati raggiunti.
Dunque non si tratta di un’apertura di fiducia incondizionata ma di un programma di lavoro su obiettivi condivisi. Ci sembra questo il modo più giusto ed operativo per rimediare alle perdita d’immagine subita dalla nostra Città nell’ultimo periodo.
Fra gli obiettivi quello più ambizioso che proponiamo, utile alla crescita del sistema economico, è quello di realizzare a Torino un grande Manufacturing Technology Centre, per attuare un forte trasferimento tecnologico attraverso le eccellenze dei centri di ricerca e delle grandi industrie a favore delle PMI.
TORINO COME CITTA’ DELL’INDUSTRIA E DELLA INNOVAZIONE MERITA UN TRAGUARDO IMPORTANTE.
Questa iniziativa dovrà essere un centro di competenza dedicato alla manifattura sul modello sperimentato con successo in altre aree europee che hanno caratteristiche ed obiettivi analoghi ai nostri, un centro come quello realizzato a Coventry nel regno unito ad esempio.
E’ un obiettivo su cui mobilitare insieme risorse pubbliche e private coinvolgendo i centri di ricerca e il sistema universitario allo scopo di alimentare e di dare nuove energie a una visione di sviluppo.
Vogliamo concentrare in un unico luogo fisico risorse, competenze, start up e fattori acceleranti l’innovazione. Un luogo dove attrarre investimenti di società non presenti ora sul territorio oppure anche di nostre imprese disponibili a collaborare ed investire, dove potremo formare meglio i nostri giovani sulle nuove tecnologie dove si possa realizzare un forte scambio di conoscenza fra università e imprese e si crei quel concreto ecosistema fondamentale per una vera ricaduta sul territorio.
Il moltiplicatore delle risorse investite pubbliche e private in iniziative come questa ritengo sia molto alto ed è dimostrato dalle esperienze realizzate in altri Paesi.
Ora a noi Unione Industriale, compete, per passare da un’idea ad un progetto, promuovere, insieme a tutti gli stakeholder del territorio, uno studio di fattibilità, ed un piano di business.
Questo è un progetto importante che riteniamo realistico, sul quale inizieremo da subito a lavorare.

Ogni volta che parliamo di investimenti ci si scontra con la scarsità delle risorse finanziarie, ma questo non può essere un alibi per l’immobilismo.
In particolare mi riferisco alle amministrazioni locali e regionali che non debbono dimenticare, malgrado il gravoso compito di far quadrare i conti, che occorre continuare a investire sul territorio utilizzando al meglio e rapidamente i fondi europei e individuando obiettivi di medio lungo termine che nel tempo creino le condizioni per lo sviluppo.
Non avere una visione ampia e strategica puo’ creare un’onda lunga di declino che richiede moltissimi anni per essere contrastata.
Il metodo del piano strategico utilizzato alcuni anni fa deve essere ripreso coinvolgendo tutti gli attori del territorio. Dal lato delle risorse finanziarie per le imprese occorre prendere in considerazione nuove fonti complementari alla tradizionale offerta bancaria.
Già da domani le risorse provenienti dal sistema bancario saranno quantitativamente inferiori mentre quelle di mercato cresceranno.
Anche il governo sta riservando una particolare attenzione al mercato dei capitali che alimenta direttamente le infrastrutture e le imprese italiane.
A tal fine sono stati introdotti positivamente i Piani di Risparmio a Lungo Termine, meglio noti come PIR.
A questo appuntamento le nostre imprese devono arrivare pronte con modelli organizzativi e di governance sempre più trasparenti ed efficienti.

La produttività è una sfida che non coinvolge solo l’innovazione, gli investimenti, l’ICT, i modelli organizzativi all’interno delle imprese, ma anche le relazioni industriali.
I lavoratori e i sindacati non possono non avere in cima alle loro preoccupazioni la salvaguardia e il miglioramento dei posti di lavoro e della loro qualità.
E’ il medesimo scopo che hanno le imprese.
Per questo sono necessarie relazioni sindacali che si adattino a queste novità dove imprese e lavoratori cambino insieme. Caro Presidente, ci piace l’idea di sottoscrivere con il sindacato un “Patto per la fabbrica”.
Ma deve essere il segnale di un vero cambiamento.
L’incontro in programma il 4 luglio tra Confindustria e Sindacati può essere l’occasione per condividere alcuni principi sugli assetti contrattuali e sulle politiche attive del lavoro.
In primo luogo è necessario che sia a livello nazionale che aziendale non si compromettano quei risultati e quegli effetti positivi conseguenti alle riforme legislative introdotte negli ultimi tempi.
Mi riferisco naturalmente alle deroghe al Jobs Act.
Questi fatti sarebbero un ritorno al passato molto pericoloso tale da compromettere gli sforzi portati avanti negli ultimi anni.
La forza di Confindustria sta nel saper presidiare non solo il governo con proposte innovative ma anche fare in modo che sui tavoli dove siamo presenti non si depotenzi quanto conquistato.
Per quanto riguarda gli assetti contrattuali deve essere chiaro che al contratto collettivo nazionale di categoria va attribuito il compito di individuare e adeguare i trattamenti minimi di garanzia economica e normativa per tutti gli addetti.
Non più aumenti a pioggia, quindi, ma solo l’adeguamento retributivo per coloro che risultano essere al di sotto dei minimi salariali.
A livello d’impresa, invece, vanno definite le modalità per conseguire il miglioramento di obiettivi aziendali di produttività, di qualità, di efficacia e di efficienza, in modo da legare effettivamente le retribuzioni ai risultati, anche per cogliere le opportunità legate alla detassazione e al welfare.
Infine sulle politiche attive, purtroppo dobbiamo constatare il ritardo cronico nell’implementare tutte le disposizioni contenute nel Jobs Act.
Occorre dare finalmente attuazione a tutti gli strumenti per favorire la ricollocazione di chi ha perso il lavoro. La prima fase di sperimentazione purtroppo è stata molto negativa In Piemonte, soltanto 150 dei 3000 interessati sono stati avviati a percorsi di formazione/lavoro.
Le norme ci sono, applichiamole.
In caso contrario il rischio è che si torni agli ammortizzatori come sostegni al reddito decretando il venir meno di uno dei punti portanti della riforma del Jobs Act.
Vorrei concludere dicendo che io per primo, come molti amici imprenditori, sento che tira un’aria nuova nel mondo dell’industria.
C’è più fiducia e più voglia di scommettere sul futuro. Anche a Torino.
Ecco perché intendo dire con molta forza che non dobbiamo, assolutamente, lasciarci influenzare dai recenti, pessimi avvenimenti che hanno messo in dubbio lo stato dell’ordine pubblico nella nostra Città.
Guai se CEDESSIMO a un umore negativo, disperando di poter riportare presto alla normalità la convivenza civile.
Ci tengo ad affermare con chiarezza che mi sembra un atteggiamento sbagliato chiedere di spostare altrove il G7, in programma per l’ultima settimana di settembre.
Torino è e deve continuare a essere la città dei grandi eventi e dell’accoglienza.
Non dovremmo nemmeno prendere in considerazione un’ipotesi che recherebbe un danno gravissimo alla nostra società locale. C’è tutto il tempo per preparare al meglio l’evento di settembre e per assicurare ad esso un’ottima riuscita come siamo stati capaci di fare in altre occasioni, e, permettetemi di aggiungere, meglio di altri.
La polemica politica immediata non deve mai andare a scapito degli interessi della nostra comunità.
Non diamo spazio a chi pratica il “tanto peggio tanto meglio”.
Ricordiamoci sempre tutti di essere in primo luogo cittadini di Torino, che hanno a cuore il bene comune.
Questo è il momento giusto per voltare pagina rispetto ad un decennio di crisi.
Ciò avverrà se la nostra Città saprà darsi un obiettivo alto, ambizioso, che possa guidare gli sforzi verso un traguardo condiviso. Al termine della prima guerra mondiale, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, colui che volle la Lega delle Nazioni, antesignana dell’ONU, disse: “Un uomo INCAPACE di avere visioni non realizzerà mai grandi speranze né comincerà mai alcuna grande impresa”. E’ una convinzione che esorto a fare nostra, se vogliamo che Torino, la nostra Città, resti grande.
Grazie.

 

 

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